Accusato di oscurità dai suoi contemporanei, dimenticato nei secoli successivi, riscoperto nel Novecento, Luis de Góngora è stato da sempre un poeta controverso. E ciò non solo per l’alto tasso di figuralità su cui si costruiscono le sue opere, ma anche per i diversi registri che esse seppero toccare. È questo il caso della sua vasta produzione di sonetti, in cui i toni alti della lirica di ispirazione petrarchista si alternano a quelli bassi della burla e della satira. Eppure anche in questi sonetti, non di rado confinanti con l’osceno e molto spesso con l’allusione scatologica, il modello letterario non viene mai meno, né si dimentica l’uso sapiente di una retorica volta ora non all’esaltazione, ma alla denigrazione, non alla lode, ma allo scherzo. A questo tipo di retorica che confina con il gioco e la battuta spiritosa si ispirano i quaranta sonetti qui tradotti, fra i più trascurati e meno studiati di Góngora, sia perché, come tutti i suoi versi, di difficile interpretazione, sia perché contrastanti con l’immagine di poeta puro attraverso cui, nel nome della metafora, egli venne riscattato dai più illustri rappresentanti della generazione del ’27 (basti, per tutti, il nome di Federico García Lorca).
Quaranta sonetti giocosi
Grandi più che ippopotami o elefanti,
titoli liberali come rocche,
camerieri, ma delle loro bocche,
illustri cavaglier, chiavi dorate;
abiti, o meglio cappe rammendate,
donne bifronti e vedove allegrotte,
carrozze da otto bestie, e ancor son poche,
fra quelle trainanti e le trainate;
avvocatucoli, anime vaganti,
coi Bartoli e gli Abadi la milizia
ed il diritto con spada e con daga;
le case e i petti, tutto con malizia,
i fanghi con prezzemolo e mentuccia:
questa è la corte. Che buon pro vi faccia!
Luis de Góngora y Argote (Cordova 1561 – ivi 1627) nacque in una famiglia di piccola nobiltà ecclesiastica, fece studi di Giurisprudenza all’Università di Salamanca e nel 1585 prese gli ordini minori per poter ereditare dallo zio materno il titolo di prebendario della Cattedrale di Cordova. Nominato nel 1617, ancora vivente Filippo III, Cappellano Reale, si trasferì a Madrid dove visse fino al 1626 lamentando sempre maggiori ristrettezze economiche. Oltre a un cospicuo numero di sonetti e canzoni di ispirazione petrarchista, la sua opera comprende numerose liriche di metro tradizionale (romances e letrillas), una commedia e quelle che vengono considerate le sue due opere maggiori (il Polifemo, favola mitologica in ottave e le Soledades, poema narrativo in silvas). Attorno a esse si scatenò, negli anni che seguirono il 1613, una delle polemiche letterarie più accese del tempo, che ne decretò la fama di poeta culto e iniziatore di una nueva poesía.
Giulia Poggi (Pisa 1946) ha insegnato Letteratura Spagnola nelle Università di Pisa, Siena, Verona. Si è occupata di letteratura dei secoli d’oro e in particolare della poesia di Góngora. Ha tradotto vari classici aurei, fra cui Góngora (I sonetti, La Tisbe, Le ferme intenzioni di Isabella) Gracián (L’acutezza e l’arte dell’ingegno, l’Oracolo manuale), Tirso de Molina. Si è inoltre interessata di narrativa ispanoamericana con saggi su Jorge Luis Borges e Silvina Ocampo. Vive a Pisa.
Trento
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